In questo articolo abbiamo deciso, in accordo con uno dei nostri utenti, di pubblicare il risultato di un lavoro clinico e riabilitativo realizzato nell’arco di alcuni mesi con lui.  D’accordo con lui abbiamo impostato un lavoro di ricerca qualitativa raccogliendo tramite un’intervista non strutturata la sua storia di vita. Siamo convinti che attraverso la narrazione possano essere colti i significati soggettivi di un’esistenza.

L’idea è nata dalla grande passione per la scrittura che caratterizza il paziente; grazie ai suoi numerosi scritti, che conserva e aggiorna con cura da anni, ci è stato possibile trarre preziose informazioni riguardanti il suo passato, le sue vicissitudini personali, i suoi pensieri e il suo modo unico e irripetibile di percepire la realtà che lo circonda.

Iniziamo ad accostarci a lui in punta di piedi, ricordando l’insegnamento della Volpe ne “Il Piccolo Principe” di Antoine de Saint-Exupéry, dapprima restando lontani, poi avvicinandoci sempre di più, un passo alla volta.

Ecco la storia di Paolo, raccontata in prima persona da lui stesso.

 

 

Mi chiamo Paolo. Sono nato alle 18.45 di un caldo mercoledì estivo.

Sono un tipo abbastanza alto, con occhi e capelli castani, sorridente, un po’ in sovrappeso per la pancia, ma tuttavia ancora atletico, nonostante i miei 48 anni.

Mi ritengo una persona istruita, ottimista, fiduciosa, lungimirante e magnanima. Mi piacciono le belle ragazze. Sono un tipo gentile, affettuoso, educato e ho uno spiccato senso dello humor. Adoro leggere libri, in particolare quello che rileggo più spesso è la Bibbia. Sono infatti un cristiano cattolico praticante. Ogni sera con costanza mi reco presso la parrocchia del mio quartiere per partecipare alla messa dei giorni infrasettimanali, e non c’è domenica in cui non sia presente alla santa celebrazione eucaristica, sbarbato, pulito e profumato, tra i primi posti destinati ai fedeli. Adoro intonare cori di chiesa. Di solito partecipo alle riunioni di catechesi e offro la mia disponibilità alle iniziative di sostegno alle persone bisognose organizzate dalla parrocchia.

Ammetto di essere un po’ pigro nelle mie giornate “no”.

Attualmente abito a Salerno assieme a mia madre. Ho perso mio padre alcuni anni fa. Lo amavo molto e ancora oggi lo ammiro.

Non sono figlio unico, ma il secondogenito di tre figli: mio fratello maggiore è sposato. Non ha figli. La sua residenza non è lontana da Salerno. Nei giorni feriali si reca a pranzo da mia madre. Insieme si occupano della mia salute e del mio benessere. Mio fratello minore è un ingegnere; anch’egli sposato, con due figlie, vive però al Nord.

Considero entrambi i miei fratelli delle brave persone. Tuttavia non vedo mio fratello minore da un anno circa, data la distanza. L’ultima volta è stata nell’Agosto del 2015, quando trascorremmo le vacanze insieme.

Pensando alla mia prima infanzia ricordo dei racconti di mia madre rispetto agli anni delle scuole materne. Io e mio fratello minore frequentavamo lo stesso asilo, avendo solo un anno di differenza. Eravamo entrambi molto vivaci, e spesso ci scatenavamo a discapito delle maestre che esigevano invece disciplina.

Adoravo giocare con le costruzioni, e impegnavo gran parte delle mie giornate nello svolgimento di quest’attività, con conseguente rammarico della maestra che voleva che mi attivassi anche in altri giochi.

Il mio primo vero ricordo d’infanzia risale a quando avevo cinque anni. Ero in bagno a fissare le scatole di scarpe dell’intera famiglia e iniziai a sentire delle voci che ce l’avevano con me, ma non ricordo il perché.

Da piccolo spesso giocavo a casa mia con altri bambini del palazzo. All’epoca abitavo in un’altra città. Mi ero trasferito lì con la mia famiglia da quando avevo sei anni e ci sono rimasto fino ai nove anni. La casa in cui vivevamo era molto grande. Dormivo in stanza con mio fratello piccolo, mentre il maggiore aveva una stanza tutta per sé, che condivideva solo con un bel gattino di nome Gimmy.

La stanza che preferivo era il salotto, che spesso diventava luogo dei giochi con mio fratello minore; mi divertivo a realizzare capanne con le poltrone.

Mia madre ci regalò un biliardino con il quale giocavamo spesso, assieme ai nostri amici…

Tra i miei ricordi più belli del periodo infantile ci sono le passeggiate domenicali al luna-park, e al lungomare, dove mi divertivo a vedere i polipetti attaccati agli scogli. Un giocattolo mi è rimasto impresso nella mente: era un aggeggio con una cordicella che se tirata dava la spinta a girare ad un’elica che saliva su in cielo, e più si tirava con forza più essa saliva in alto. Era il mio giocattolo preferito e adoravo vederlo salire sempre più su.

Un’altra mia passione, che coltivo fin da quando ero piccolo è andare in bici. Imparai ad andare in bicicletta senza rotelle all’età di sei anni, come accade per molti bambini, grazie a mio padre. Ricordo di quella volta in cui mio padre mi lasciò provare la bici senza il suo supporto: andai a finire in un campo di spighe e inveii contro di lui.

Spesso usavo la bici nel giardino del nostro condominio; colui che si occupava della manutenzione della mia bici era mio fratello maggiore, ad un prezzo però: era solito darla in prestito ad un conoscente, con cui tuttavia io non avevo niente a che fare, affinché ricevesse in cambio dei ciondolini, o almeno era così che mi diceva di dire se qualcuno mi avesse chiesto qualcosa.

Frequentai il primo anno della scuola elementare. In seconda venni trasferito ad un altro plesso. Qui conobbi il mio primo amico F. Giocavamo a pallone e andavamo insieme in bicicletta. Una volta lo aiutai a fare ordine nel suo garage, e in segno di riconoscenza lui mi regalò una moto giocattolo da montare. Ricordo con piacere che condividevamo gli stessi sentimenti e le medesime emozioni. Eravamo anche nello stesso gruppo di catechismo e alla fine del corso, l’insegnante ci regalò un libretto del Vangelo. Da piccoli eravamo soliti divertirci e trascorrere i pomeriggi nel cortile recintato da alcuni cespugli, oltre i quali non ci era permesso andare.

Alcuni dei pomeriggi che ho trascorso nella mia infanzia, tuttavia, non erano altrettanto piacevoli: mia madre era una maestra, e spesso riceveva visite da una sua collega con le sue due figlie. La più piccola aveva l’abitudine di giocare con Gimmy in modo violento: prendeva la sua cuccetta con lui dentro e la faceva roteare con velocità; ammetto di essere stato sempre molto preoccupato nell’assistere a quelle scene ed è per questo che spesso la rimproveravo, nonostante mia madre mi dicesse di lasciarla in pace. Tenevo molto a cuore il mio gattino, e volevo soltanto proteggerlo da una bambina un po’ troppo vivace.

In estate ho frequentato una colonia per cinque anni consecutivi, dai sei agli undici. Ricordo delle belle esperienze di gioco e divertimento che condividevo con i miei fratelli e gli altri bambini in spiaggia, come ad esempio quella volta in cui realizzammo con la sabbia un’auto da corsa in cui il più piccolo del gruppo poté entrare e fingere di essere un pilota di formula uno. Le mie vacanze non si limitavano alla colonia estiva, bensì ogni anno, dai sei ai quindici anni, insieme a tutta la mia famiglia trascorrevamo l’intero mese di Agosto a Salerno, città natale, in cui ricordo splendide giornate all’insegna del divertimento, delle nuotate in piscina e dei giochi con i miei fratelli in spiaggia.

La mia infanzia è stata caratterizzata da svariate attività extra-scolastiche. Nel pomeriggio frequentavo corsi d’inglese, disegno, basket e pattinaggio.

A nove anni entrai nel gruppo degli scout e assieme ai miei nuovi amici lupetti seguii il corso di preparazione per la Prima Comunione. A tal proposito ricordo un episodio in cui, spinto dalla curiosità rispetto alla somministrazione della Sacra Ostia, pur non avendo ancora ricevuto la Prima Comunione, mi inserii tra i fedeli in fila per l’Eucarestia e presi la Particula. Mia madre, in seguito, mi spiegò il vero significato di quell’azione. Mia madre ci teneva che io frequentassi l’ambiente cristiano cattolico in modo costante e con profonda partecipazione.

Fino ai dodici anni ho frequentato il gruppo degli scout, in cui c’erano regole rigide da rispettare, responsabilità, costanza ed impegno da dimostrare. Tuttavia a volte avevo difficoltà ad accettare le regole imposte, come ad esempio occuparmi della pulizia delle stoviglie e fare altri servizi. La rigidità e le responsabilità che normalmente sopraggiungevano con la crescita mi spaventavano, e fu così che decisi di non voler passare oltre lo stadio dei lupetti. Preferivo restare tra i piccoli, con poche responsabilità e sotto la protezione dei più grandi.

C’è inoltre un ricordo poco piacevole che mi torna alla mente, in cui fui percosso da un giovane più grande di me apparentemente senza una motivazione valida. La mia unica reazione fu piangere, come spesso accadeva dinanzi a reazioni violente nei miei confronti da parte di altri. Tuttavia ricordo anche di una persona buona e disponibile nei miei confronti che in quel momento tentò di aiutarmi come poteva.

Rispetto alla scuola ricordo di essere stato molto bravo alle elementari, ma dalle medie il mio rendimento ha iniziato a vacillare.

Nell’estate che precedette l’inizio della prima media mia madre mi insegnò le prime cognizioni di lingua inglese. Ancora oggi mi piacciono le lingue, e ora conosco anche il Francese.

Con le medie ho iniziato a frequentare un ragazzino, mio compagno di classe, con il quale spesso mi incontravo di pomeriggio per fare i compiti assieme. In realtà, quando mi recavo a casa sua tutto facevamo fuorché studiare. Ricordo in modo particolare di come spesso quel ragazzino si divertiva a chiudermi in stanza e a prendermi in giro, istigandomi con risate e schiamazzi. Io non mi sono mai ribellato a quegli ingiusti comportamenti nei miei confronti, se non attraverso le richieste di aiuto alla madre del ragazzo, che tuttavia non si è mai intromessa in modo da rimproverare il comportamento inadeguato del figlio. La frequentazione di quel compagno mi coinvolse in un’inerzia e svogliatezza rispetto agli impegni scolastici da cui conseguì la discesa del mio rendimento. Ancora oggi mi rimprovero della mia eccessiva bontà e fiducia nei confronti degli altri che da piccolo mi hanno portato ad essere vittima di ingiustizie.

Ricordo invece con piacere di T., una mia compagna di classe che mi piaceva molto. Infatti fu proprio a lei che feci la mia prima innocente dichiarazione di amore. Purtroppo T. l’ultimo anno delle medie si trasferì in un’altra scuola, per cui ci perdemmo di vista.

In riferimento a quegli anni ricordo con piacere anche di una gita a Rimini, con mio padre e mio fratello minore. Avevo dodici anni. Successivamente viaggiai anche all’estero visitando Vienna, la Francia e la Svizzera, sempre assieme al mio grande papà.

Pensando alla fase adolescenziale mi rattristo per ciò che distingue la mia vita da quella di tutte le altre persone. Un giorno iniziai a sentire la voce di un giovane vicino di casa che abitava al piano superiore. Quella voce, che mi insultava definendomi “cane” era sempre più frequente e insistente. L’autore di quelle continue denigrazioni pareva essere un certo M., compagno di giochi di mio fratello maggiore. Spesso essi giocavano insieme a tennis. Ricordo che di tanto in tanto mi divertivo a disturbarli interrompendo le loro partite. Un giorno M., seccato del mio comportamento, se la prese con me e mi picchiò. Io piansi e non seppi come difendermi. M.  era solito trattarmi con indifferenza, e riservarmi sempre gli scarti di ciò che avrebbe dovuto equamente condividere nel gruppo dei ragazzini del quartiere, come ad esempio le caramelle dal gusto peggiore o le gomme da masticare dal sapore scadente. Questo ragazzo, poco più grande di me, provava un vero e proprio odio nei miei riguardi e spesso faceva in modo da mettermi nella condizione di ricevere botte. Numerose erano le angherie che subivo da M. Ammetto di non riuscire a comprendere il motivo dei gesti di M., ma anche di provare profondo rancore nei suoi confronti, chiedendomi perché io fossi l’unico oggetto dei maltrattamenti di questo ragazzo.

Fu successivamente a tutti questi eventi negativi che iniziai a sentire le offese di M., provenienti dal piano di sopra e iniziai a pensare che mio fratello minore avesse una parte nella cospirazione contro di me, facendomi sentire denigrato, insultandomi a sua volta e facendo strani versi con la bocca che mi irritavano tutte le volte che io ero a letto la sera e lui in bagno. Quando mio fratello minore ritornava dal bagno di servizio, gli tiravo uno scarpone con tutta la mia forza, per vendicarmi di quello che avevo sentito, poiché quei rumori e quelle voci moleste mi impedivano di dormire.

Una volta mio padre provò a chiarire le vicende degli insulti di M. con i genitori del ragazzo, ma si arrivò a tutt’altro che a chiarimenti. Pareva che M. fosse innocente, e non c’erano prove della sua colpevolezza, anzi tutto lasciava intendere che si trattasse di mie fantasie.

I miei genitori allora si convinsero che gli altri avevano ragione, e che tutto dipendeva dalla mia mente. In effetti la distanza tra il nostro appartamento e quello della famiglia di M. era tale da risultare impossibile percepire voci provenienti dalla loro casa. I miei allora cercarono di farmi comprendere che ciò che sentivo era solo nella mia mente e non corrispondeva alla realtà. Fu allora che la mia ira iniziò a crescere dentro di me finché non potei fare a meno di rigettarla all’esterno contro gli oggetti, i muri, e col tempo anche contro i miei genitori e i miei fratelli, agendo con comportamenti aggressivi. Lo ricordo con precisione: era il 31 maggio del 1990, quando, aprendo la porta d’ingresso diedi un calcio a mio padre. Non so ben dire il perché di quell’azione; so solo che percepii come un istinto, una reazione spontanea a cui non seppi resistere. Le reazioni violente contro i membri della mia famiglia e gli oggetti della casa divennero più frequenti, e tutto è riconducibile alle voci che reputavo reali, e a cui invece nessuno credeva.

Pensando alle relazioni con persone esterne ricordo che intorno ai quindici anni frequentavo altri ragazzi con cui spesso ci riunivamo nella Villa Comunale. Loro erano bravi, mi facevano compagnia e assieme praticavamo giochi all’aperto. Ma a me questo non bastava, avrei voluto condividere con loro altri momenti, seguirli a casa e passare più tempo con loro. E così iniziai a seguirli di nascosto per scoprire dove abitassero. Talvolta cercavo di baciare le ragazze dei miei amici, cercando di accattivarmi le loro simpatie. Il mio desiderio più grande era di stringere una forte amicizia con quei ragazzi, e al contempo trovare anche una fidanzata. Tra le tante ragazze, E., una mia compagna di scuola del primo anno delle superiori, attrasse particolarmente la mia attenzione, e desiderai che diventasse la mia migliore amica affinché un giorno potesse essere la mia fidanzata. Ma io non ero l’unico colpito dalla bellezza di E.; vi erano infatti ben due miei rivali alla conquista del suo cuore, M. e G. Tuttavia ricordo che il padre di lei cercò di distoglierla dal pensare a cose del genere.

Avevo un diario e attraverso questo strumento potevo esprimere i miei sentimenti nei confronti di E., la quale era molto interessata a scoprire cosa scrivessi su di lei e spesso rispondeva con altrettanti complimenti. Il mio intento restava quello di dimostrarle che ero intenzionato a diventare il suo ragazzo. Ebbi il coraggio solo di chiederle di essere la mia miglior amica. A distanza di vent’anni da quando la conoscevo ho sognato di flirtare con lei, immaginandomela ancora così, nelle vesti della bella sedicenne che mi colpì in adolescenza; sognai anche di andare a letto con lei, per il piacere di provare cosa volesse dire fare l’amore. Sono stato profondamente innamorato di E., e ancora oggi volgo il mio pensiero a lei con malinconia.

In quello stesso periodo manifestai alcuni problemi a scuola, soprattutto in dattilografia, che mi condussero alla bocciatura.

Quello stesso anno ci trasferimmo a Salerno, perché mio padre ottenne un incarico in una sede più vicina alla nostra città d’origine. Mentre mio fratello maggiore iniziava l’università, io fui iscritto alla nuova scuola, la ragioneria. Qui, il primo giorno di scuola conobbi una ragazza di nome V., da cui rimasi immediatamente colpito e che considerai la mia possibile ragazza. Tuttavia V. non era intenzionata a diventare la mia fidanzata, ma coltivammo una buona amicizia. Un ragazzo in quel periodo iniziò a istigarmi sfruttando il rapporto che avevo con V.; cercava di farmi ingelosire al fine di vedere quale sarebbe stata la mia reazione. Questo mi rese sempre più vulnerabile alle mie “fissazioni mentali” e presto mi condussero a colloquio da uno psicologo. Egli fu solo il primo professionista della salute mentale con cui ebbi a che fare.

Poi entrai in contatto con uno psichiatra, il quale, non trovando altre soluzioni alle problematiche che manifestavo con insistenza crescente, aumentò in maniera sproporzionata la posologia degli psicofarmaci, provocandomi il torcicollo spastico e la rigidità alle gambe. Le mie reazioni aggressive contro gli oggetti e i miei familiari continuavano a verificarsi, come tutte le mie fissazioni e voci. Fu allora che venni ricoverato presso la prima struttura residenziale per pazienti psichiatrici. Avevo diciassette anni. Fu per quel ricovero che persi un altro anno di scuola. Ma in quel periodo ricordo anche di aver frequentato un corso di ginnastica per tre mesi, subito dopo essere uscito da lì. Qui ebbi la fortuna di incontrare un istruttore grazie al quale appresi che non era necessario prendersela tanto per cose futili. Grazie a lui sono diventato meno apprensivo e scrupoloso, più flessibile e accondiscendente.

Le mie fissazioni mentali si manifestavano principalmente attraverso allucinazioni uditive sottoforma di voci, senza timbro né tono, che commentavano il mio comportamento tra loro, mi davano cattivi consigli, strani comandi, spesso per indurmi a fare brutte figure o dubitare di alcuni miei pensieri. Le voci sono malvagie per natura. Esse cercano di dominare la mia mente.

In adolescenza ero solito dar loro retta e seguivo i loro ordini, recandomi in luoghi specifici da loro indicati, e chiedendo informazioni ai passanti per raggiungere la destinazione in cui attendevo di trovare ciò che le voci mi avevano detto. Di seguito un paragrafo tratto da uno dei miei scritti riguardo le mie voci:

 

“[…] Secondo “le voci” io ho due genitori finti. Essi non mi amano. Al contrario mi odiano. Mi tirano sempre dei brutti scherzi. Essi hanno dei complici: la televisione, i conducenti delle autoambulanze e i vigili del fuoco. Le voci mi spingono a fare dei brutti pensieri e a comportarmi male. Esse vorrebbero sottrarmi una somma di denaro che io non ho ed infastidirmi per farmi evitare di poter accettare la pensione di reversibilità di mio padre. Per questo “le voci” non la smettono di provocarmi con parolacce e bugie facendomi credere in cose assurde senza significato, né fondamento. “Le voci” si manifestano sempre e dovunque. Io convivo con loro. […]”

 

Quando ero ancora un ragazzo diciassettenne iniziai ad avere anche allucinazioni visive riguardanti gli autisti delle automobili che mi apparivano come mummie immobili oppure come uomini dal volto di gorilla. Temevo che se avessi sbattuto contro le auto, esse si sarebbero potute distruggere e trasformarsi in tante bolle di sapone. Spesso scoppiavo a ridere senza un valido motivo dinanzi ai professori a scuola, indossavo abiti invernali anche d’estate, apparendo a tutti come un tipo strambo.

Iscritto nella nuova scuola a Salerno trovai difficoltà ad integrarmi nell’ambiente dei pari. Lì si odiavano tutti, erano cattivi e si prendevano in giro a vicenda. Non erano amici né tra loro né con me. C’era però un’anima buona in quel mucchio di diavoli. Si chiamava S. Fu l’unica a mostrare affetto nei miei confronti. Un giorno mi invitò al suo compleanno a casa sua e, affinché potessi partecipare, la madre diede la sua disponibilità a venirmi a prendere a casa e a riaccompagnarmi alla fine della festa. Ci teneva davvero a me. Era la mia unica vera amica, e ancora oggi la penso, e vorrei farle arrivare i miei saluti. Sono venti anni che non ci vediamo e avrei davvero piacere a rivederla.

Un sostegno importante alla mia fragile mente venne anche dalla vicepreside dell’Istituto, la quale si impegnò a fornirmi un supporto emotivo durante quegli anni difficili. Grazie a lei mi sentivo in un certo senso protetto e potevo così non temere gli altri professori e i loro giudizi scolastici.

Nel giugno del 1990, iniziai ad essere seguito dagli specialisti di altre strutture della provincia di Salerno. Qui ricevetti più ricoveri nell’arco dei quattro anni successivi. Il problema del torcicollo spastico continuava ad angustiarmi, e il disagio psichico invadeva con insistenza la mia mente. I miei ricordi iniziano ad essere più sfumati rispetto a questa fase di vita. Ho difficoltà nel ricostruire gli eventi e le vicende che si verificarono. Dal ’93 al ’96 frequentai anche una comunità terapeutica; ricordo quel periodo come alquanto piacevole, all’insegna di festicciole organizzate dal personale e gite di gruppo. Le giornate si svolgevano tra laboratori di lavorazione dell’argilla e lezioni di musica, con l’utilizzo di svariati strumenti musicali. La terapia che seguivo lì prevedeva degli esercizi corporei da fare allo specchio, per la riabilitazione dal mio problema al collo.

Ci fu anche un ricovero presso l’ospedale, a ventotto anni, dovuto ad una crisi associata alle allucinazioni; ricordo solo che iniziai a gridare, sotto comando delle voci e furono costretti a ricoverarmi. E qui iniziai a non trattare bene gli oggetti presenti nella stanza. Allora gli infermieri, per vendicarsi del mio comportamento inadeguato, rubarono l’orologio che mi aveva regalato mio padre.

Nel ’96 fui trasferito presso un centro fuori città; qui si lavorava molto bene per la riabilitazione dei pazienti. Spesso venivano organizzate escursioni fuori porta. Tuttavia per problemi economici interni della struttura, fu ampliata l’utenza ad un’altra categoria di ospiti, gli anziani non autosufficienti, che inevitabilmente limitò lo svolgimento di molte attività per i disabili. Vissi con molto rammarico quel cambiamento e successivamente tornai a Salerno.

Iniziai poi a frequentare le attività di un centro privato a Salerno. Qui iniziai a stringere numerosi rapporti d’amicizia con gli altri ospiti del Centro. Quelle persone erano davvero speciali, perché in grado di voler bene a coloro da cui ricevono affetto.

Sono sempre stato una persona socievole. Frequentando quotidianamente la parrocchia ho stretto numerose amicizie. In molti mi conoscono nel quartiere dove vivo. Alcune signore anziane in passato mi regalavano marmellata, biscotti e altre piccole attenzioni che mi riscaldavano il cuore.

Tuttavia spesso mi sono sentito disprezzato e deriso dalla gente normale, e ancora oggi ne soffro molto.

Una delle esperienze di ricovero che ricordo con maggiore tristezza riguarda il trasferimento in una casa di cura di Salerno. Non c’erano molti bagni e sanitari agibili, e fui costretto a recarmi nel bagno di un altro ospite della struttura per potermi lavare. Fu così che ricevetti un pugno da lui. In quel periodo sentii di star regredendo con la mia malattia, e credo che la causa sia riconducibile alle condizioni in cui mi trovavo in quell’ambiente degradante. Fortunatamente presto ottenni le dimissioni. Mi sentivo come in un carcere lì.

Pensando alle cose più belle che ho vissuto negli ultimi anni, scrivere questa storia è sicuramente una di quelle. Ma ricordo anche l’incontro con una zia che non vedevo da molto tempo, e la serenità di una normale famiglia che si riunisce con lontani parenti.

Attualmente frequento dei laboratori diurni presso la Cooperativa Sociale “Agape. Ricordo l’intensa paura del primo giorno in cui entrai nella struttura, credendo di non potermi fidare degli altri utenti, e temendo che loro mi giudicassero male. Ma una lacrima di gioia, che al ricordo solca il mio viso, mi ricorda la commozione di quando ho scoperto che lì potevo trovare nuovi amici.

Ad Agape ho incontrato assistenti, medici, animatori e psicologi sempre preparati e disponibili. E’ una giovane équipe fondata su nobili principi con una mentalità moderna ed una profonda concezione dell’amicizia. Queste persone sono sempre presenti nello svolgimento delle diverse attività di noi utenti. Ci stimolano nell’affrontare i nostri problemi in modo sempre più sicuro. Stanno attenti a come ci comportiamo nei nostri rapporti interpersonali e ci offrono consigli per andare più d’accordo con i nostri familiari. La struttura offre diversi servizi e noi utenti non manchiamo mai di ringraziare con un sorriso pieno di gioia sincera.

Il centro insegna ai suoi ospiti a rendersi utili, affidando loro diversi compiti come cucinare, apparecchiare e sparecchiare la tavola nel laboratorio di cucina. Anche gli utenti mi incitano ad essere sempre più fattivo, per imparare a cucinare e pulire, sistemando anche gli ambienti di lavoro. Gli operatori cercano di agevolarci nella nostra crescita in diversi modi. Ci insegnano il senso del rispetto reciproco e l’amor proprio. Ci permettono di fortificare i nostri vincoli di amicizia. Ci invogliano a coltivare i nostri interessi per le attività più disparate, per allenare la mente, il corpo e lo spirito ad attività utili sotto ogni profilo della nostra salute. Si ingegnano nel fornirci varie opinioni per affrontare in maniera adatta i nostri problemi. Ci esortano a dire la verità ed assumere l’atteggiamento più consono in qualsiasi circostanza. Ci invitano a seguire le regole della struttura. Ci viene così trasmessa da loro un’educazione coerente con il nostro stile di vita. I loro obiettivi sono: il recupero ed il reinserimento del paziente nel mondo della vita e del lavoro.

Tutto questo serve per renderci liberi ed indipendenti.

Rileggere questo breve excursus sulla mia vita fino ad oggi mi rende felice. Non desidero una vita diversa da quella che ho avuto. Ammetto che mi sarebbe piaciuto diventare un segretario scolastico o un controllore degli autobus.

Nonostante non abbia mai avuto un vero lavoro, mi impegno sempre con diligenza nella scrittura, attività per me molto importante attraverso la quale manifesto i miei sentimenti, i miei ricordi, i miei stati emotivi, i miei pensieri e i miei giudizi su ciò che vivo e sulle persone che incontro sul mio cammino.

 

Paolo S.